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Fondi governativi per la lotta alla povertà educativa, il Piemonte non ottiene un euro: perché?

Pubblicati ieri i bandi sul sito dell’Agenzia per la Coesione Territoriale: Lombardia e Veneto, a differenza nostra, riceveranno 4 milioni in quanto regioni fortemente “colpite dalla pandemia”. Qual è la ragione dell’esclusione del Piemonte? I nostri Assessori non vedono queste opportunità? Se sì, perché non le colgono?

Bandi “Contrasto alla povertà educativa” pubblicati ieri: i fondi ci sono e non sono solo per il Sud (il contributo arriva dal Ministero per il Sud e la Coesione territoriale), ma il Piemonte resta escluso. A differenza di Lombardia e Veneto, che si divideranno 4 milioni in quanto tra le regioni “più colpite dalla pandemia”.

Perché la nostra Regione non è riuscita a ottenere un centesimo? Non è forse tra le aree più colpite dalla pandemia? C’è qualche ragione tecnica (quale?) o, semplicemente, la nostra Giunta non è stata abbastanza presente e pronta? Tutte domande che rivolgerò in Consiglio Regionale. 

Mi chiedo inoltre se i nostri Assessori monitorino con la dovuta attenzione queste opportunità e, se sì, perché non le colgano. Sarebbe forse utile una presenza più assidua e incisiva della Giunta sui tavoli nazionali, senza la quale diventa poi superflua e stucchevole ogni lamentela sui “fondi governativi che non ci arrivano”.

In una fase nella quale la didattica a distanza rischia di favorire la dispersione scolastica nelle realtà più difficili, sono utili anche fondi per cifre totali, come in questo caso, non altissime. Gli interventi di lotta alla povertà educativa proposti dalla misura sono indirizzati ad ambiti caratterizzati da disagio socio-economico. Dovrà trattarsi di partnership costituite e coordinate da enti del Terzo Settore, anche insieme ad altri ETS e soggetti pubblici.

Subito un piano di garanzia sanitaria per i pazienti con problematiche uditive

Faccio mie le richieste di diverse Associazioni del territorio: anche in questa fase di emergenza sia garantita la continuità terapeutica per i pazienti con ipoacusia. Ho presentato in Consiglio Regionale un’interrogazione sul tema.

I servizi essenziali ospedalieri e ambulatoriali territoriali non dovrebbero interrompersi neppure in questa fase di massima emergenza COVID, nella quale molte attività sono già state ridotte o sospese. Questo deve valere anche per quanto riguarda l’ipoacusia. È necessario e urgente un piano di garanzia sanitaria per i pazienti con problematiche di questo tipo. Faccio mio l’appello lanciato alla Regione Piemonte da diverse Associazioni (Ciao ci sentiamo, APIC Associazione portatori impianto cocleare, Fiadda Piemonte, Istituto dei sordi di Torino, FederAnziani). Interrompere l’attività di presa in carico dei pazienti con patologie dell’udito porta con sé gravi conseguenze, specialmente nei soggetti più fragili. Occorre non soltanto preservare la salute, ma anche allontanare il rischio di isolamento sociale spesso connesso ai problemi uditivi, in una fase già di per sé non favorevole alle relazioni interpersonali, così come è importante prevenire le altre possibili conseguenze (decadenza cognitiva, depressione e aumento del rischio di demenza tra le altre) dell’abbassamento dell’udito. Ho presentato in Consiglio Regionale un’interrogazione urgente per chiedere che, anche in tempi di emergenza COVID, sia garantita la continuità dell’attività clinica ambulatoriale, con un particolare focus sull’attività ordinaria di screening, mappatura e controllo di impianti cocleari e apparecchi acustici.

Ristori, la beffa degli esclusi

Ci sono categorie per le quali non esistono indicazioni chiare e ci sono categorie che, pur potendo restare aperte, si trovano di fatto attive senza clienti: per entrambi i casi, in diversi casi, non sono previsti ristori. Quanti sono gli imprenditori, gli artigiani e i negozianti in questa situazione nella nostra regione? I ristori non dovrebbero significare, almeno in teoria, sostegno per tutti?

Ci sono categorie merceologiche che, trovandosi in una zona d’ombra priva di indicazioni chiare, hanno comprensibilmente chiuso in queste settimane di lockdown, eppure, in quanto titolari di codici ATECO non inclusi nelle misure economiche di sostegno, resteranno senza ristori. Ce ne sono altre che, pur potendo continuare l’attività, si trovano di fatto senza clienti, perché i livelli più bassi della filiera sono chiusi: anche per queste seconde, niente sostegno finanziario. Due situazioni diffuse anche in Piemonte e che coinvolgono un numero imprecisato di artigiani, commercianti e imprenditori.

Per ragioni incomprensibili – racconta per esempio Mauro Pezzulich, titolare a Torino del negozio di coppe e trofei Palladium – non solo la mia attività, ma l’intera filiera della quale essa fa parte è esclusa dai ristori. Sembrerebbe, nell’ardua impresa di decifrazione dei decreti, che le attività come la mia debbano restare chiuse. In ogni caso – con eventi sociali, convegni, congressi, fiere, meeting e attività scolastiche sospesi – non venderemmo un pezzo. E nonostante tutto siamo esclusi dai ristori, come codice ATECO 25.99.99“.

Questo è solo un esempio, probabilmente tra molti altri possibili. Quante altre attività e imprese piemontesi si trovano in simili condizioni? 

Se la finalità del decreto è aiutare tutti, tutte le attività produttive e commerciali che hanno subito un danno dovrebbero ottenere un proporzionato sostegno. Se la finalità dei ristori è – cosa che condivido – non lasciare indietro nessuno, una selezione tra i codici ATECO così arbitraria (o frettolosa) smentisce clamorosamente questa finalità. Anche gli ambulanti di generi alimentari per esempio, continuando a lavorare, percepiscono il sostegno a fondo perduto. Mi batterò in Consiglio Regionale per provare a colmare in parte questi squilibri.

La carenza di medici è drammatica, ma quando ne troviamo uno disponibile non siamo in grado di abilitarlo

Il clamoroso caso del dottor Efraín Crego, medico cubano da anni in Italia messosi a disposizione in questa fase di emergenza: ma la sua odissea per ottenere anche nel nostro Paese il riconoscimento del titolo accademico non si è ancora conclusa. Quanti altri medici extracomunitari si trovano nella stessa, assurda situazione?

Efrain Alberto Crego Quesada è un medico cubano. Da cinque anni è in Italia. Si è messo a disposizione in questa fase di emergenza da COVID-19, nella quale particolarmente grave è la carenza di personale medico. Manca solo un “piccolo” dettaglio: il riconoscimento anche in Italia del suo titolo accademico, conseguito a Cuba. 

Il suo titolo di Dottore in Medicina, conseguito a Cuba, è stato riconosciuto, per esempio, dal “Ministerio de Educación, Cultura y Deporte” (Spagna), ma non dal nostro Paese. Gli è stato chiesto, e lui ha accettato, di frequentare un anno integrativo presso i nostri atenei, ma la prospettiva si è infranta di fronte al numero chiuso: nessun posto disponibile e nulla di fatto.

Crego ha un curriculum di tutto rispetto. La sua esperienza sarebbe utilissima in una fase drammatica nella quale non solo i posti letto, ma il personale medico è tanto raro quanto prezioso. Nel suo CV spicca, oltre alla laurea in Medicina (conseguita all’Università Dr. Serafín Ruíz de Zárate Ruíz, nel 1996, a Cuba), la specializzazione in Medicina Generale Integrale (Medicina Famigliare, sempre all’Università Dr.Serafín Ruíz de Zárate Ruíz nel 2001). La sua esperienza è vasta a livello internazionale.

Eppure, di fatto, qui da noi Crego non può svolgere la propria attività professionale. Neppure ora, in una fase di assoluta urgenza. Quanti altri medici laureatisi fuori dall’Europa sono nella stessa situazione? Trovo stucchevole e assurdo che il Piemonte, che si è fatto aiutare dai medici (con medesimo titolo) della Brigata Henry Reeve durante la prima ondata, oggi si trovi in questa impasse solo perché il nostro sistema universitario non riconosce titoli extraeuropei.

Il mio appello: troviamo una soluzione. E facciamolo in fretta.

Perché la Regione continua a usare gli ospedali invece del territorio?

Perché dobbiamo continuare a mandare una persona anziana, affetta da Alzheimer o da diabete, in ospedale piuttosto che nella farmacia sotto casa per ritirare i farmaci necessari a curarsi? Usare meglio e di più la “distribuzione per conto” attraverso le farmacie: facilità di accesso, sicurezza per i cittadini e risparmio globale per la Regione.

Almeno 400.000 accessi impropri ogni anno agli ospedali da parte dei cittadini piemontesi per ritirare medicinali che potrebbero essere distribuiti facilmente dalle 1600 farmacie territoriali (di cui 700 rurali, più i 150 dispensari nei comuni più piccoli) della nostra Regione.

Si tratta di un numero di persone enorme (e la cifra è assolutamente sottostimata), sicuramente fragili, anziani e/o malati cronici, che sono costrette ad attraversare la città o spostarsi di Comune per raggiungere l’ospedale e lì ritirare il medicinale che potrebbero trovare nella farmacia del loro quartiere o del loro paese.

Per quale ragione? Soprattutto adesso, in questa situazione di emergenza sanitaria – si chiedono Gallo, Giaccone, Grimaldi, Magliano e Sacco – perché non usare al meglio la rete delle farmacie territoriali che eviterebbero spostamenti pericolosi per il singolo e per la collettività?

Dispensare medicinali attraverso la farmacia significa potenziare la sanità territoriale, limitare il disagio dei cittadini, fornire un servizio più efficiente e capillare, evitare inutili costi sociali e sanitari correlati al diffondersi del Covid e, quindi, ottenere un risparmio complessivo: guadagnare in salute e risparmiare denaro.

“Non sfruttare pienamente la rete territoriale della farmacia è pericoloso e controproducente”, proseguono i Presidenti dei Gruppi Pd, Lista Monviso, Luv, Moderati e 5 stelle.
E il costo che la Regione sostiene per la distribuzione capillare attraverso le farmacie è sicuramente inferiore ai costi sociali, sanitari ed economici che si potrebbero ingenerare attraverso lo spostamento inutile verso gli ospedali da parte della popolazione più fragile”.

L’emergenza Covid ha evidenziato la necessità di un rafforzamento dell’assistenza territoriale, che si è rivelata non in grado di assicurare cure adeguate a domicilio ai contagiati non gravi e nemmeno di farsi carico dei pazienti cronici e fragili, e questa assistenza passa anche attraverso lo ‘sfruttamento’ ottimale della rete delle farmacie e la distribuzione da parte di queste dei farmaci.

In Piemonte c’è un eccessivo ricorso alla Distribuzione Diretta effettuata dagli ospedali/ASL, che va proprio nella direzione opposta alla territorializzazione della sanità. Infatti, la Regione non utilizza buona parte del finanziamento dello Stato per la Spesa Farmaceutica Convenzionata, vale a dire territoriale, mentre sfora abbondantemente per quella ospedaliera. Due numeri: nel 2019 la Regione Piemonte ha “avanzato” quasi 126 milioni di euro dalla convenzionata (sui 668 stanziati) e ha “sfondato” di oltre 164 milioni di euro il tetto della spesa ospedaliera (dati AIFA, “Monitoraggio spesa”); dal 2015, inoltre, la spesa convenzionata si è contratta di oltre 63 milioni di euro, ai quali si devono sommare i 17 milioni di euro di riduzione registrati nel primo semestre di quest’anno.

Ma anche sul lato della DPC (modalità attraverso la quale la Regione compra attraverso gare ad evidenza pubblica a prezzi estremamente ridotti alcuni medicinali e li fa distribuire dalle farmacie a fronte di un onorario fisso di circa 5 euro, che è inferiore alla abituale marginalità della farmacia) le cose non vanno meglio.

Nonostante l’accordo regionale, alcune ASL continuano a ricorrere massicciamente alla Distribuzione Diretta, con evidenti disagi per il cittadino e costi di gestione e ambientali: la differenza in termini percentuali tra le ASL che rispettano l’accordo e quelle che invece persistono nella distribuzione diretta è intorno al 40%, cioè quasi 800mila confezioni su base annua che il cittadino cronico, assistito sul territorio dal proprio medico di medicina generale, deve andare a ritirare in ospedale anziché nella farmacia sotto casa, con evidenti oneri aggiuntivi per il cittadino stesso, pericoli di contagio e distrazioni di risorse da destinare invece alle acuzie e/o altre attività proprie dell’ospedale: si tratta di oltre 400mila accessi impropri/anno alle farmacie ospedaliere. A ciò si aggiunge la distribuzione diretta da parte della Regione di una quota sensibile di principi attivi del PHT, ulteriori a quelli indicati nell’accordo e contenuti per lo più in medicinali somministrati per via orale, agevolmente gestibili sul territorio e che dovrebbero, quindi, essere invece indirizzati alla DPC riducendo così ulteriormente spostamenti ed accessi agli ospedali.

Raffaele Gallo (Pd)
Sean Sacco (M5S)
Marco Grimaldi (Luv)
Mario Giaccone (Lista Monviso)
Silvio Magliano (Moderati)