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Tag: Sanità

Esami e visite specialistiche non si interrompano causa COVID per sventare una seconda emergenza sanitaria

Stiamo concentrando tutti i nostri sforzi contro la pandemia in atto, ma ci sono tante altre patologie che richiedono cure costanti e non rimandabili. Non possiamo lasciare indietro tanti cittadini con patologie croniche, oncologiche, autoimmuni o rare; diversamente, rischiamo che, a pandemia finita, esploda una nuova e altrettanto grave crisi sanitaria. Se da una parte la Giunta, rispondendo al mio Question Time sul tema, prova a rassicurare, dall’altra mi preoccupano le molte segnalazioni che mi stanno giungendo.

Un’emergenza nell’emergenza: è quella delle visite specialistiche e degli esami sempre più frequentemente rimandati a data da destinarsi, a causa dell’emergenza da Covid-19, presso le nostre strutture e nei nostri ambulatori. Poco fa, in Consiglio Regionale, ho chiesto un’informativa da parte della Giunta e ho discusso, con l’Assessore Icardi, un Question Time sul tema. Il sempre più frequente fenomeno dei rinvii di esami specialistici e screening porta con sé rischi che non possiamo permetterci di correre e che vanno dall’aggravarsi di alcune già delicate situazioni cliniche alla mancata diagnosi immediata di patologie di particolare gravità, per esempio oncologiche. Le segnalazioni che mi stanno arrivando sono diverse e si riferiscono a patologie croniche o autoimmuni, a minori e anziani affetti da patologie dell’udito e a diverse altre situazioni per le quali l’interruzione dell’attività ordinaria di screening, mappatura e controllo avrebbe effetti devastanti. La Giunta Regionale, a verbale, prova a rassicurare, ma le tantissime segnalazioni che mi stanno giungendo aumentano la mia preoccupazione. I continui rinvii, oltre a essere motivo di giusta preoccupazione da parte dei pazienti, rischiano di tradursi in un aggravamento delle condizioni di tante persone e dunque, come le testate giornalistiche stanno paventando in questi giorni, in un imminente e nuovo problema sanitario. Rischiamo di pagare un prezzo altissimo: in termini finanziari (serviranno cure più urgenti e costose) e, cosa ben più grave, in termini di vite umane.

Ospedale di Settimo, spiragli di ottimismo: ma noi chiediamo certezze

L’Assessore Icardi, rispondendo alla mia interpellanza sul tema, afferma che la vendita dell’Ospedale Civico non è nelle intenzioni della Giunta. Bene, ma non basta: territorio e cittadini hanno bisogno di risposte certe e tempi definiti e rapidi. Stiamo ancora aspettando le une e gli altri. Il mio impegno continua perché il nostro territorio non debba rinunciare a un’assoluta eccellenza.

Vendita non dico scongiurata, ma definita dalla stessa Giunta, rispondendo poco fa alla mia interpellanza sul tema, “la meno probabile delle opzioni”.  Bene, anche se per cittadini e territorio serve di più: in particolare, risposte e tempi rapidi e certi. Non ci sono stati: conto che arrivino presto. 

L’Ospedale Civico Città di Settimo Torinese è strategico per un’ampia fetta del territorio piemontese. Mi auguro che la progettualità per il prossimo futuro non preveda soltanto il mantenimento, ma il potenziamento della struttura. L’emergenza da Covid-19 ha reso ancora più urgente un cambio di paradigma relativamente al modello dei nostri ospedali e della nostra Sanità: un potenziamento delle strutture del territorio non è più procrastinabile. Per l’Ospedale di Settimo si potrebbe pensare a un maggior coinvolgimento del privato sociale. In ogni caso, mi auguro che, quale che sia la formula scelta, si tengano in considerazione le esigenze del territorio e dei cittadini. 

Finita la sperimentazione, la struttura è da un anno abbondante in regime di prorogatio. A questo punto, il ventaglio di scelte si articola in tre opzioni: passaggio da regime sperimentale a regime ordinario con scelta del socio privato tramite procedura a evidenza pubblica; chiusura della sperimentazione con gestione diretta da parte dell’Asl; cessione del presidio a soggetti privati. La terza soluzione è, garantisce la Giunta, la meno probabile. Mi auguro che questo terzo scenario sia davvero scongiurato.

Dopo il Question Time discusso lo scorso luglio e l’odierna interpellanza, il mio impegno per garantire il miglior futuro al presidio di Settimo continua. La sperimentazione gestionale, modello innovativo di management delle attività sanitarie pubbliche, ha dato in questi anni risultati di rilievo, per esempio – ma non solo – nei campi della lungodegenza e della riabilitazione. Ora è il momento di rilanciare con ambizione.

Subito un piano di garanzia sanitaria per i pazienti con problematiche uditive

Faccio mie le richieste di diverse Associazioni del territorio: anche in questa fase di emergenza sia garantita la continuità terapeutica per i pazienti con ipoacusia. Ho presentato in Consiglio Regionale un’interrogazione sul tema.

I servizi essenziali ospedalieri e ambulatoriali territoriali non dovrebbero interrompersi neppure in questa fase di massima emergenza COVID, nella quale molte attività sono già state ridotte o sospese. Questo deve valere anche per quanto riguarda l’ipoacusia. È necessario e urgente un piano di garanzia sanitaria per i pazienti con problematiche di questo tipo. Faccio mio l’appello lanciato alla Regione Piemonte da diverse Associazioni (Ciao ci sentiamo, APIC Associazione portatori impianto cocleare, Fiadda Piemonte, Istituto dei sordi di Torino, FederAnziani). Interrompere l’attività di presa in carico dei pazienti con patologie dell’udito porta con sé gravi conseguenze, specialmente nei soggetti più fragili. Occorre non soltanto preservare la salute, ma anche allontanare il rischio di isolamento sociale spesso connesso ai problemi uditivi, in una fase già di per sé non favorevole alle relazioni interpersonali, così come è importante prevenire le altre possibili conseguenze (decadenza cognitiva, depressione e aumento del rischio di demenza tra le altre) dell’abbassamento dell’udito. Ho presentato in Consiglio Regionale un’interrogazione urgente per chiedere che, anche in tempi di emergenza COVID, sia garantita la continuità dell’attività clinica ambulatoriale, con un particolare focus sull’attività ordinaria di screening, mappatura e controllo di impianti cocleari e apparecchi acustici.

La carenza di medici è drammatica, ma quando ne troviamo uno disponibile non siamo in grado di abilitarlo

Il clamoroso caso del dottor Efraín Crego, medico cubano da anni in Italia messosi a disposizione in questa fase di emergenza: ma la sua odissea per ottenere anche nel nostro Paese il riconoscimento del titolo accademico non si è ancora conclusa. Quanti altri medici extracomunitari si trovano nella stessa, assurda situazione?

Efrain Alberto Crego Quesada è un medico cubano. Da cinque anni è in Italia. Si è messo a disposizione in questa fase di emergenza da COVID-19, nella quale particolarmente grave è la carenza di personale medico. Manca solo un “piccolo” dettaglio: il riconoscimento anche in Italia del suo titolo accademico, conseguito a Cuba. 

Il suo titolo di Dottore in Medicina, conseguito a Cuba, è stato riconosciuto, per esempio, dal “Ministerio de Educación, Cultura y Deporte” (Spagna), ma non dal nostro Paese. Gli è stato chiesto, e lui ha accettato, di frequentare un anno integrativo presso i nostri atenei, ma la prospettiva si è infranta di fronte al numero chiuso: nessun posto disponibile e nulla di fatto.

Crego ha un curriculum di tutto rispetto. La sua esperienza sarebbe utilissima in una fase drammatica nella quale non solo i posti letto, ma il personale medico è tanto raro quanto prezioso. Nel suo CV spicca, oltre alla laurea in Medicina (conseguita all’Università Dr. Serafín Ruíz de Zárate Ruíz, nel 1996, a Cuba), la specializzazione in Medicina Generale Integrale (Medicina Famigliare, sempre all’Università Dr.Serafín Ruíz de Zárate Ruíz nel 2001). La sua esperienza è vasta a livello internazionale.

Eppure, di fatto, qui da noi Crego non può svolgere la propria attività professionale. Neppure ora, in una fase di assoluta urgenza. Quanti altri medici laureatisi fuori dall’Europa sono nella stessa situazione? Trovo stucchevole e assurdo che il Piemonte, che si è fatto aiutare dai medici (con medesimo titolo) della Brigata Henry Reeve durante la prima ondata, oggi si trovi in questa impasse solo perché il nostro sistema universitario non riconosce titoli extraeuropei.

Il mio appello: troviamo una soluzione. E facciamolo in fretta.

Perché la Regione continua a usare gli ospedali invece del territorio?

Perché dobbiamo continuare a mandare una persona anziana, affetta da Alzheimer o da diabete, in ospedale piuttosto che nella farmacia sotto casa per ritirare i farmaci necessari a curarsi? Usare meglio e di più la “distribuzione per conto” attraverso le farmacie: facilità di accesso, sicurezza per i cittadini e risparmio globale per la Regione.

Almeno 400.000 accessi impropri ogni anno agli ospedali da parte dei cittadini piemontesi per ritirare medicinali che potrebbero essere distribuiti facilmente dalle 1600 farmacie territoriali (di cui 700 rurali, più i 150 dispensari nei comuni più piccoli) della nostra Regione.

Si tratta di un numero di persone enorme (e la cifra è assolutamente sottostimata), sicuramente fragili, anziani e/o malati cronici, che sono costrette ad attraversare la città o spostarsi di Comune per raggiungere l’ospedale e lì ritirare il medicinale che potrebbero trovare nella farmacia del loro quartiere o del loro paese.

Per quale ragione? Soprattutto adesso, in questa situazione di emergenza sanitaria – si chiedono Gallo, Giaccone, Grimaldi, Magliano e Sacco – perché non usare al meglio la rete delle farmacie territoriali che eviterebbero spostamenti pericolosi per il singolo e per la collettività?

Dispensare medicinali attraverso la farmacia significa potenziare la sanità territoriale, limitare il disagio dei cittadini, fornire un servizio più efficiente e capillare, evitare inutili costi sociali e sanitari correlati al diffondersi del Covid e, quindi, ottenere un risparmio complessivo: guadagnare in salute e risparmiare denaro.

“Non sfruttare pienamente la rete territoriale della farmacia è pericoloso e controproducente”, proseguono i Presidenti dei Gruppi Pd, Lista Monviso, Luv, Moderati e 5 stelle.
E il costo che la Regione sostiene per la distribuzione capillare attraverso le farmacie è sicuramente inferiore ai costi sociali, sanitari ed economici che si potrebbero ingenerare attraverso lo spostamento inutile verso gli ospedali da parte della popolazione più fragile”.

L’emergenza Covid ha evidenziato la necessità di un rafforzamento dell’assistenza territoriale, che si è rivelata non in grado di assicurare cure adeguate a domicilio ai contagiati non gravi e nemmeno di farsi carico dei pazienti cronici e fragili, e questa assistenza passa anche attraverso lo ‘sfruttamento’ ottimale della rete delle farmacie e la distribuzione da parte di queste dei farmaci.

In Piemonte c’è un eccessivo ricorso alla Distribuzione Diretta effettuata dagli ospedali/ASL, che va proprio nella direzione opposta alla territorializzazione della sanità. Infatti, la Regione non utilizza buona parte del finanziamento dello Stato per la Spesa Farmaceutica Convenzionata, vale a dire territoriale, mentre sfora abbondantemente per quella ospedaliera. Due numeri: nel 2019 la Regione Piemonte ha “avanzato” quasi 126 milioni di euro dalla convenzionata (sui 668 stanziati) e ha “sfondato” di oltre 164 milioni di euro il tetto della spesa ospedaliera (dati AIFA, “Monitoraggio spesa”); dal 2015, inoltre, la spesa convenzionata si è contratta di oltre 63 milioni di euro, ai quali si devono sommare i 17 milioni di euro di riduzione registrati nel primo semestre di quest’anno.

Ma anche sul lato della DPC (modalità attraverso la quale la Regione compra attraverso gare ad evidenza pubblica a prezzi estremamente ridotti alcuni medicinali e li fa distribuire dalle farmacie a fronte di un onorario fisso di circa 5 euro, che è inferiore alla abituale marginalità della farmacia) le cose non vanno meglio.

Nonostante l’accordo regionale, alcune ASL continuano a ricorrere massicciamente alla Distribuzione Diretta, con evidenti disagi per il cittadino e costi di gestione e ambientali: la differenza in termini percentuali tra le ASL che rispettano l’accordo e quelle che invece persistono nella distribuzione diretta è intorno al 40%, cioè quasi 800mila confezioni su base annua che il cittadino cronico, assistito sul territorio dal proprio medico di medicina generale, deve andare a ritirare in ospedale anziché nella farmacia sotto casa, con evidenti oneri aggiuntivi per il cittadino stesso, pericoli di contagio e distrazioni di risorse da destinare invece alle acuzie e/o altre attività proprie dell’ospedale: si tratta di oltre 400mila accessi impropri/anno alle farmacie ospedaliere. A ciò si aggiunge la distribuzione diretta da parte della Regione di una quota sensibile di principi attivi del PHT, ulteriori a quelli indicati nell’accordo e contenuti per lo più in medicinali somministrati per via orale, agevolmente gestibili sul territorio e che dovrebbero, quindi, essere invece indirizzati alla DPC riducendo così ulteriormente spostamenti ed accessi agli ospedali.

Raffaele Gallo (Pd)
Sean Sacco (M5S)
Marco Grimaldi (Luv)
Mario Giaccone (Lista Monviso)
Silvio Magliano (Moderati)